Teoria e applicazione dei kata tradizionali
di Patrick McCarthy
traduzione di: Marco Forti
Questa traduzione è stata espressamente autorizzata dall’autore
(la riproduzione di questo testo è consentita solo con il consenso scritto dell’autore)
Che cos’è elegante, fluente e dinamico all’esterno ma metodico, semplice e brutale all’interno?
Se la vostra risposta è stata “kata”(1), non solo avete risposto correttamente ma è ovvio che conoscete qualcosa sul Karate che pare sia sfuggito ad un’intera generazione di praticanti più impressionabili ma meno informati. Troppo spesso giudicato dalla sua apparenza e a volte paragonato ad un libro, ciò che appare in superficie non è ciò che è realmente contenuto all’interno(2) del kata.
Un tempo pratica ben custodita, trasmessa secondo un rituale ferreo di segretezza, il kata è la vera ragione per cui il Karate, come arte, è stato preservato e trasmesso fino ad oggi. Il suo retaggio si può far risalire ai primi architetti del quanfa(3) cinese. Purtroppo però, la formula usata un tempo per aiutare la trasmissione delle premesse contestuali che culminavano nei kata, si è persa nella scia della sua moderna transizione che ne ha oscurato gli originari principi applicativi difensivi.
Perpetuata per generazioni, questa ambiguità rimane oggi l’oggetto di un’intensa curiosità da parte degli appassionati occidentali più progressisti, nonostante la popolarità delle moderne interpretazioni dei kata.
Come ricercatore non rifiuto i principi del karate, ma sono in disaccordo con l’interpretazione moderna dei kata. Nel tentativo di dissolvere l’ambiguità che avvolge la storia e le teorie tecniche dei kata, spero sinceramente che troviate convincente l’analisi presentata in questo articolo.
Atti abituali di violenza fisica/HAPV(4)
Attraverso anni di ricerca e studio ho stabilito una teoria secondo la quale i primi pionieri svilupparono pratiche di autodifesa, basate sulle conoscenze acquisite grazie all’esperienza empirica. Considerando come questa ipotesi pragmatica potesse aiutare a dissolvere la frustrante ambiguità che ne ammantava la sua preistoria; ancor più importante, tuttavia, tali analisi hanno anche gettato le basi che mi hanno consentito di identificare e catalogare gli atti abituali di violenza fisica (HAPV) in separate (ed infine combinate) modalità di apprendimento, fondamentali per la comprensione dell’evoluzione dell’intero processo di studio.
Esercizi a due persone
Sono convinto che quando un allievo comprende la mentalità brutale che caratterizza la violenza fisica ingiustificata, appare chiaro che l’unica via pratica attraverso la quale (la persona media può) apprendere e padroneggiare le risposte difensive funzionali (contro i classici 36 atti di violenza fisica abituale) consiste nella riproduzione di ogni atto di violenza fisica in un ambiente controllato.
Conseguentemente ho dedotto che, attraverso prove ed errori, in un ambiente controllato, con un mentore esperto e riducendo i rischi di lesioni gravi, gli allievi hanno l’opportunità di testare ed esplorare i principi difensivi che risultano maggiormente efficaci per la loro corporatura e personalità. Inoltre, la mia teoria sugli esercizi a due persone garantisce ad ogni studente la possibilità di progredire esponenzialmente fino a che il processo di apprendimento raggiunge i risultati attesi: acquisire una sufficiente spontaneità funzionale da consentire che ogni atto abituale di violenza fisica (o combinazione di più atti) possa essere efficacemente negoziato.
Rituali
I risultati finali della mia lunga ricerca sulle origini e l’evoluzione dei kata hanno prodotto una teoria molto semplice che sta guadagnando un sempre maggior riconoscimento nella comunità internazionale del Karate, pur sempre estremamente critica e altamente inflessibile. Ho concluso che, rimuovendo l’attaccante dalla pratica degli esercizi a due persone, ciò che rimaneva era una riproduzione a solo delle singole applicazioni difensive. Per stabilire metodologie di insegnamento innovative, pur mantenendo rituali inflessibili di segretezza, ho dedotto inoltre che gli innovatori, pionieri del quanfa, hanno ritualizzato la pletora di applicazioni difensive a solo in modelli individuali unici, ciascuno dei quali veniva identificato con un nome speciale (ad esempio “gru sulla roccia”, “il guardiano chiude il cancello”, “i due dragoni escono dal mare”, ecc…). Poiché anche la più rudimentale analisi sui kata classici rivela una configurazione di tecniche composite, ho naturalmente concluso che i primi pionieri della nostra tradizione hanno ingegnosamente costruito i modelli difensivi in meccanismi mnemonici unici (Hsing/Kata) non solo per ricordare lezioni importanti ma anche per alimentare concetti olistici.
Sulla base di questa ipotesi, non credo che il kata come sequenza a solo avesse lo scopo di impartire insegnamenti sull’autodifesa, quanto piuttosto servisse a culminare lezioni già impartite e promuovere l’acquisizione di quegli attributi fisici richiesti da ogni sistema funzionale. Naturalmente, questa convinzione non esclude che ci siano anche benefici associati alla mera pratica a solo dei kata, ma vuole fornire anche una spiegazione pragmatica difensiva che prima non esisteva.
Infine, per quanto riguarda la miriade di stili e kata, credo che le variazioni su temi comuni ed i diversi lignaggi apparsi nel corso di diverse generazioni derivino soprattutto da preferenze individuali, comprensioni personali, differenti interpretazioni e lotte per il potere. Nel corso degli anni alcuni nomi vennero cambiati per evidenziarne l’appartenenza a precisi lignaggi ed i modelli vennero riconfigurati o reinterpretati. Riconoscere l’importanza di questa teoria non solo migliora la comprensione della sua preistoria ma approfondisce la nostra prospettiva e l’apprezzamento dell’arte.
Fisica e biomeccanica
La conoscenza e l’applicazione dei principi comuni della fisica sono elementi integranti di un’efficace applicazione difensiva. Poiché le strutture anatomiche del corpo umano sono uniche, con le conoscenze della fisica di base è possibile applicare efficacemente leve comuni, specialmente quando c’è interessamento degli arti e del collo. Inoltre, per poter trasferire l’energia in modo efficace ad ogni data struttura anatomica, durante uno scontro difensivo, diventa fondamentale capire come muovere correttamente il corpo. Lo studio della biomeccanica offre al karateka le informazioni di base sul modo più efficiente di trasferire in modo efficace la forza cinetica sia a bassa intensità che con maggior forza e velocità per impedire prestazioni motorie: lo scopo primario dell’autodifesa.
Anatomia funzionale e fisiologia
Riconoscendo il valore della biomeccanica e della fisica nel Karate, non serve un grande sforzo per comprendere come la conoscenza del corpo umano e delle sue funzioni di base possa migliorare l’applicazione generale dell’arte. Comprendere le strutture anatomiche e le relative funzioni rivela le vulnerabilità specifiche del corpo umano e fornisce informazioni preziose sul loro sfruttamento. Attraverso le mie ricerche sono arrivato a definire cinque argomenti principali attraverso i quali il processo applicativo veniva impartito nella scuola antica:
· Obiettivo anatomico (l’area precisa da attaccare);
· Strumento per il trasferimento di energia (pugno, piede, gomito, ginocchio, ecc…);
· Angolo (angolo in cui avviene il trasferimento di energia; ad esempio: 45°, 90°, ecc…);
· Direzione (la direzione del trasferimento di energia; ad esempio: da dietro, perpendicolare, ecc…);
· Intensità (quanta forza è richiesta per il trasferimento di energia).
Hojo Undo
Metodi alternativi di allenamento complementare sono espressione creativa di necessità ed intuizioni individuali, finalizzati a supportare la rete di un sistema di formazione funzionale. Esempi classici comprendevano l’uso di: makiwara, pesi di pietra, ecc…
Antropologia
Con una storia terribilmente ambigua, le radici di questa tradizione contorta sono sepolte in un cimitero di miti ed indelebili leggende che si rifanno al Buddismo Zen e al Monastero di Shaolin. In realtà le radici del Karate si ritrovano in diverse scuole del quanfa del Fujian, che casualmente hanno trovato la loro strada verso Okinawa nell’ultima parte del periodo dell’antico Regno delle Ryukyu.
Collezionato, studiato ed infine modernizzato all’inizio del ventesimo secolo, allo scopo di essere introdotto come un complemento all’educazione fisica nel sistema scolastico di Okinawa, il Karate-jutsu venne trasformato dalla cultura del Budo dopo essere stato introdotto in Giappone.
Per quanto l’antropologia socio-culturale e storica non sia esattamente in prima linea tra le competenze didattiche della maggior parte degli istruttori, non deve essere comunque essere esclusa dagli studi indipendenti. Attraverso questi studi gli appassionati possono meglio scoprire e comprendere come le consuetudini, la lingua, la conformazione culturale, l’inflessibile ideologia sociale e le convinzioni spirituali abbiano dato forma all’evoluzione, alle teorie e alla filosofia del Karatedo.
Filosofia morale
Un errore che I moderni karateka spesso fanno, quando cercano di comprendere le origini concettuali, le teorie applicative classiche e la filosofia morale del Karatedo, è quello di dipendere troppo da assunti contemporanei. La conoscenza data per acquisita al giorno d’oggi era in origine chiusa in ferrei rituali di segretezza conosciuti solo da una selezionata minoranza che aveva superato l’ardua prova del tempo. Per la stessa ragione per cui non si dovrebbe affidare un’arma carica a mani immorali, così i primi pionieri di questa tradizione ritenevano imprescindibile abbracciare una filosofia morale per governare il comportamento etico di coloro che avevano padroneggiato i brutali segreti dell’arte del combattimento.
Spiritualità
Rendendosi conto che la fonte della debolezza umana giace dentro ciascuno di noi, I primi innovatori, molti dei quali erano reclusi spirituali, realizzarono che il viaggio finale dell’uomo doveva essere rivolto all’interno, non all’esterno. La scoperta dell’origine dell’umana debolezza ha anche rivelato il luogo interiore dove le battaglie dell’uomo devono essere combattute e vinte, prima di poter pensare di migliorare le circostanze esterne della loro vita quotidiana. Trasmettere questa verità attraverso la loro disciplina difensiva, alla ricerca di emancipazione e armonia, divenne un viaggio desiderato ancor più ardentemente del veicolo fisico usato per raggiungerlo.
Il tutto
Nonostante le diverse opinioni che possiamo ritenere vere, il Karatedo continua a diffondersi in molteplici forme: come metodo di protezione personale, stile di vita disciplinato, forma unica di benessere fisico, sport competitivo e industria commerciale.
Identificandone le singole parti e studiando i principi su cui si basa, riusciamo meglio a dissolvere l’ambiguità che avvolge l’arte, distinguendo ciò che è Karatedo da ciò che non lo è.
Una degli aspetti più affascinanti legati alla storia e all’evoluzione di questa meravigliosa tradizione consiste nello studio della cultura, della filosofia e della vita delle persone che ne hanno promosso la pratica. In tal modo viene rivelato un messaggio ancora più importante. Cosa potrebbe migliorare ancora la nostra comprensione generale del Karate più che camminare sulle orme dei pionieri dell’arte?
Studiando l’antropologia di questa tradizione appare evidente che molti dei primi pionieri stabilirono una vera e propria simbiosi col Karate e le loro vite divennero un prodotto dell’arte così come l’arte divenne un prodotto delle loro vite. Insieme allo studio dell’arte riceviamo la responsabilità di mantenere viva questa conoscenza, una responsabilità che si estende oltre il karate, e tocca la società intera. Il Karate condiziona il corpo, coltiva la mente e nutre lo spirito.
Conclusioni
L’intenzione originaria perseguita dai pionieri della nostra tradizione consisteva nel guidare gli allievi nello studio degli atti abituali di violenza fisica (HAPV) in modo che potessero comprendere come erano state sviluppate ed applicate le strategie tattiche e le applicazioni pratiche (oyo-jutsu); questo processo analitico, oggi spesso frainteso, è conosciuto come bunkai-jutsu. La pratica moderna che consiste nello studio dei kata per scoprirne applicazioni funzionali fa uso della cosiddetta ingegneria inversa. Usando condizioni di apprendimento sicure (ambiente dojo), gli atti abituali di violenza fisica vengono sistematicamente riprodotti in esercizi a due persone nei quali le strategie tattiche vengono metodicamente ricreate. Tali pratiche vengono ripetute con un aumento graduale o esponenziale di intensità che dipende interamente dall’attitudine individuale di ogni allievo, fino a raggiungere un grado di spontaneità funzionale che consente di utilizzare efficacemente i principi applicativi indipendentemente dall’atto di violenza fisica applicato. Attraverso questo processo embrionale i primi pionieri scoprirono la necessità di ritualizzare la parte a solo di queste pratiche difensive in composizioni individuali. Intese come meccanismi mnemonici, queste composizioni individuali aiutarono gli innovatori ad assemblare e ricordare la miriade di strategie tattiche che sviluppavano. Originariamente le sequenze a solo non erano state sviluppate per impartire lezioni ma piuttosto per culminare ciò che era già stato insegnato. Oltre a rafforzare i loro curricula, i pionieri si resero conto che aggregare sequenze multiple in modelli individuali consentiva loro anche di migliorare il condizionamento fisico, mentale ed olistico promuovendo il processo di apprendimento generale. Questo fenomeno segnò la nascita di quello che nel quanfa/kenpo cinese viene chiamato Hsing (Kata in giapponese). Molti dei più antichi kata trasmessi nella tradizione del Karate di Okinawa (Ryukyu kenpo: vale a dire il quanfa praticato ad Okinawa nel periodo dell’antico Regno delle Ryukyu) affondano le loro radici in questo fenomeno.
Patrick McCarthy
ACNM Faculty of Health Sciences
Director Martial Arts Instructor’s Diploma Program
www.koryu-uchinadi.com
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NOTE
(1) Hsing (Cinese Mandarino) è l’equivalente nel quanfa cinese.
(2) Il significato più profondo del kata consiste in principi applicativi univoci di difesa contro diversi atti di violenza fisica che non appaiono evidenti ad un occhio non allenato. Spesso tali principi vengono definiti “kakushi” (segreti). Capire come usare un kata richiede una comprensione funzionale delle sue basi contestuali.
(3) Fino all’inizio del ventesimo secolo la pratica dei kata ad Okinawa era un segreto ben custodito.
(4) Acronimo dell’inglese Habitual Acts of Physical Violence.
Copyright © Patrick McCarthy
traduzione di: Marco Forti
Questa traduzione è stata espressamente autorizzata dall’autore
(la riproduzione di questo testo è consentita solo con il consenso scritto dell’autore)