Tegumi

Tegumi

di Patrick McCarthy
traduzione di Marco Forti

Tegumi è un termine nativo di Okinawa, un tempo utilizzato per identificare una forma plebea di lotta, presumibilmente tramandata fin dal dodicesimo secolo. Il termine è composto da due caratteri cinesi (kanji): 1. /te (mano/mani ma anche tecnica o arte marziale) e 2. 組/kumi (ideogramma con diversi significati, in questo caso utilizzato nella sua accezione di incontro/lotta).
Secondo la leggenda questa forma di combattimento era diffusa nella società isolana fin dai tempi antichi e si trasformò in pratica ritualizzata dedicata agli dei del cielo e della terra per chiedere raccolti e pesca abbondanti, in modo simile a quanto accadde al sumo giapponese.

Il tegumi, con la sua natura di pratica brutale era un rito culturale, una vera e propria prova di coraggio che, ai suoi albori, segnava il passaggio dei giovani all’età adulta.
In origine erano poche le regole di quel che oggi è chiamato sumo di Okinawa. Si utilizzavano scambi feroci di colpi con mani e piedi, tecniche di strangolamento, controlli articolari e lotta a terra.
Per rendere la sua pratica più sicura vennero gradualmente inserite regole e, nel 1956, anche le ultime regole fissate prima della guerra vennero ulteriormente emendate al fine di fissare gli standard tuttora in vigore.
Per intere generazioni i festival di Naminoue, Makishiugan, Obon, Kensha, e Shokon all’Onoyama Park richiamarono migliaia di spettatori impazienti di assistere alle competizioni brutali che vedevano protagonisti i giovani atleti desiderosi di ricevere le più alte onorificenze nel tegumi. Esso rimase tradizione popolare ad Okinawa fino al periodo Taisho (1912-26). Tra i karateka locali che parteciparono attivamente nel tegumi si ricordano Yabu Kentsu (1863-1937), Hanashiro Chomo (1869-1945), Kyan Chotoku (1870-1945) e Aragaki Ankichi (1899-1929) (Nagamine, 1991).
Il tegumi venne integrato anche nell’interpretazione locale (toudi-jutsu) del gongfu cinese, vigorosamente praticato ad Okinawa nel periodo dell’antico Regno delle Ryukyu.
Per quanto sia difficile da immaginare oggi, l’Uchinadi del diciannovesimo secolo, cioè il karate prima della suddivisione in stili, rappresentava il processo attraverso il quale venivano realizzati e messi in pratica i principi difensivi reali, piuttosto che l’insieme di pratiche ritualizzate e regolamentate che caratterizzano l’attuale karate-do.
Gli esercizi che integravano azioni volte ad intrappolare, urtare, afferrare e deflettere, usate per stabilire prese e posizioni nel tegumi di vecchia scuola divennero pratica di moda tra i giovani praticanti dell’uchinadi del 19° secolo che cercavano di migliorare le loro abilità nelle sfide kakedamashi.
Sintetizzati con pratiche a due persone dell’uchinadi e continuamente migliorati da esercizi correlati introdotti dalla provincia cinese del Fujian e da Sud Est Asiatico, i tegumi renzokugeiko (esercizi fluenti) divennero un collegamento indispensabile nella catena perpetua di apprendimento finalizzata ad applicare i principi trasmessi attraverso i kata.
Il famoso storico del karate e illustre maestro Kinjo Hiroshi sottolineava come tali esercizi fossero praticamente sconosciuti nella pratica sportivizzata caratteristica del moderno karate-do giapponese e che solo alcuni frammenti fossero tramandati nelle attuali scuole di Okinawa. Tra i pochissimi innovatori del karate ad eccellere nel tegumi spicca la figura di Motobu Choki (1871-1944). Mentre lavoravo alla traduzione del libro di Nagamine Shoshin, I grandi maestri del karate di Okinawa, mi rimase impressa l’affermazione dell’autore secondo cui Motobu praticava pochissimi kata non perché nessuno volesse insegnargli ma semplicemente perché non era necessario studiarne tanti, esattamente il contrario dell’attuale insensata tendenza all’accumulo di moltissimi kata [Nagamine 1990].
Iwae Tsukuo nota che “Motobu era fortemente convinto che nel momento in cui si comprendevano i principi difensivi fondamentali, tutto ciò che era necessario erano i tegumi che ne supportavano le applicazioni” [1989]. Numerosi artisti marziali di vecchia scuola di Okinawa, notavano che già nel periodo in cui visse Motobu Choki, la conoscenza dei tegumi stava lentamente dissolvendosi.
Motobu era solito affermare dei suoi contemporanei: «se non comprendono i tegumi come possono comprendere i kata?»
Kinjo Hiroshi mi ha insegnato molti dei tegumi preferiti da Motobu. Quest’ultimo affermava che uomini come Kojo Taite (1837-1917), Aragaki Seisho (1840-1920), Xie Zhongxiang (1852-1930, conosciuto anche come Ryu Ru Ko), Zhou Zihe (1874-1926), Miao Xing (1881-1939), Wu Xianhui (1886-1940, conosciuto anche come Gokenki), Tang Daiji (1887-1937), Higashionna Kanryo (1853-1917), Kiyoda Juhatsu (1886-1967) e Uechi Kambun (1877-1948) insegnavano esercizi a due persone basati su tecniche di aggancio, spinta, urto, intrappolamento e deviazione che compongono i tegumi. Inoltre egli descrisse questi esercizi come parte integrante di un tutto più ampio, sicuramente doloroso nella pratica ma che oltre a ferite superficiali porta alla comprensione dei segreti meglio protetti e più ignorati dal karate moderno.
Dieci anni di ricerche intensive in Giappone, Cina e Sud Est Asiatico mi hanno permesso di sperimentare miriadi di esercizi a due persone, finalizzati allo sviluppo e alla comprensione delle applicazioni delle tecniche difensive. Basandomi sui risultati di questa ricerca comparativa e combinandoli con la mancanza di pratiche correlate ad Okinawa, ho formulato diverse importanti deduzioni sul perché si sia verificata una graduale perdita della pratica dei tegumi nel karate-do. In particolare i tre principali motivi per cui la loro conoscenza si è dispersa sono:

  1. passaggio da istruzione privata ad insegnamento alle masse;
  2. esponenziale crescita militarista nel Giappone dell’epoca;
  3. esigenza di creare un’arte moderna per le nuove generazioni.

Itosu Anko
Prima dell’avvento della campagna per modernizzare la pratica del karate, iniziata da Itosu Anko (1832-1915), il Toudi-jutsu, così come gli stili cinesi da cui si era evoluto, utilizzava vigorose pratiche di allenamento a due persone che collegavano i principali strumenti di impatto con vari metodi per trasferire energia cinetica alle relative applicazioni difensive.
Tuttavia, dopo la modernizzazione del karate ad opera di Itosu, tali pratiche si persero poiché gli scopi e gli obiettivi dell’allenamento erano radicalmente cambiati.
Il Toudi-jutsu era abitualmente insegnato in forma privata, la maggior parte dei maestri aveva pochissimi allievi, spesso solo uno e talvolta nessuno. Questo è uno dei motivi per cui alcuni segreti sono stati sepolti con i loro detentori. L’insegnamento “uno ad uno” forniva il tempo e l’attenzione personale necessaria per comprendere completamente i kata e gli esercizi a due persone ad essi associati. Un tale lusso non era certo più riproducibile durante le sessioni di allenamento destinate a grandi gruppi che Itosu aveva introdotto nel sistema scolastico. Piuttosto fu il kata a divenire la fonte di studio primaria, dato che poteva essere eseguito da molti studenti guidati da un unico insegnante. La quantità compromise la qualità ma allo stesso tempo rese l’allenamento disponibile alle masse e questo consentì di diffondere e rendere popolare la nuova pratica.

Gli scopi militari
La trasformazione del Toudi-jutsu da un’oscura arte di autodifesa, la riformulazione della sua pratica e dei suoi scopi e l’introduzione nel sistema scolastico pubblico di Okinawa produssero un nuovo fine per il suo uso. L’allenamento nel “moderno” Toudi-jutsu, che enfatizzava la forma fisica e lo sviluppo del carattere, divenne uno strumento per preparare i giovani uomini al servizio militare obbligatorio della durata di due anni.
Se ci sono dubbi sul perché Itosu abbia modernizzato la pratica del Toudi-jutsu, è sufficiente leggere la sua lettera dell’ottobre 1908 indirizzata al Ministro dell’Educazione e al Dipartimento della Guerra. Nel testo, tra le altre cose, egli scrisse:
Non dimentichiamo cosa disse il duca di Wellington dopo aver sconfitto l’imperatore Napoleone: «La vittoria di oggi ha le sue radici nella disciplina appresa nei cortili di Eton…»
Il karate può essere diffuso in tutta la nazione e oltre a dare benefici alla popolazione in generale può anche costituire un enorme risorsa per le nostre forze armate.

La propaganda del Dai Nippon Butokukai nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale, supportata dagli uffici governativi, affermava che il budo (di cui il karate divenne ufficialmente parte nel dicembre 1933) fosse “la Via” attraverso cui uomini comuni acquisiscono un coraggio straordinario.

Un’arte moderna per una nuova generazione
L’eclettico frutto dell’ingegno di Itosu pose le fondamenta sulle quali si formò una nuova generazione di esperti di karate. Nel corso della prima introduzione nella madrepatria giapponese, il Toudi-jutsu subì un’ulteriore metamorfosi. Introdotto nel corso di un’era di radicale ed intensa militarizzazione, il karate-jutsu, nome con cui venne diffusa la tradizione reinterpretata, venne profondamente influenzato da kendo e judo. In retrospettiva è ampiamente riconosciuto che l’adozione del fenomeno dello shobu ippon kumite abbia rivoluzionato sia la pratica che gli scopi del karate. Il sistema di valutazione ad un punto venne energicamente diffuso nel Giappone post-Edo sia nel kendo che nel judo come strumento per giudicare gli incontri.
Preservato e promosso nel Giappone del dopoguerra, lo shobu ippon kumite e le corrispondenti pratiche che ne derivarono vennero mantenute e migliorate. Vigorosamente praticato come attività competitiva all’interno dei bukatsu (club sportivi) delle maggiori università nelle regioni centrali del Kanto e del Kansai, il karate divenne immensamente popolare.

Nonostante alcune chiare idiosincrasie fisiche e sociali (che in un certo qual modo riflettono lo specifico contesto culturale), la maggior parte degli stili di Okinawa oggi evidenziano l’inevitabile influenza del karate giapponese. Le pratiche di allenamento tipiche ed il bunkaijutsu (analisi delle applicazioni dei kata) che caratterizzano tali scuole riflettono gli scopi regolamentati e gli obiettivi competitivi che si ritrovano comunemente in madrepatria.
Lo sforzo collettivo di promuovere il karate come sport ebbe come conseguenza lo sviluppo di metodi di allenamento universali finalizzati esclusivamente a supportarne gli scopi competitivi. Inoltre, la definizione di standard nazionali resero ancor più semplice promuovere la tradizione come sport, richiamando le diverse fazioni allo scopo di testarne tecnica e spirito nell’ambito di eventi sportivi.

Supportato da metodi di allenamento che riflettono unicamente gli obiettivi competitivi ed i regolamenti sportivi, il karate moderno (ora comunemente ed erroneamente definito “karate tradizionale”) non si è mai curato adeguatamente di approfondire i temi difensivi reali presenti nei kata originari.

In fondo perché studiare come traumatizzare un arto, affondare le dita in un occhio, torcere un’articolazione oppure impedire l’accesso di aria ai polmoni se il solo scopo è vincere una competizione con un punto pieno oppure acquisire una migliore forma fisica? Per lo stesso motivo che senso avrebbe insegnare a qualcuno una tecnica schematica con canoni imposti da un regolamento se lo scopo finale fosse quello di utilizzarla in un ambito senza regole?

Kinjo Hiroshi scriveva (1989) che da quando il Giappone era uscito dal feudalesimo la moderna società aveva scarso bisogno di perseguire gli scopi originari per i quali il karate era stato originariamente creato. Comprensibilmente le pratiche che coltivavano una tale brutalità divennero obsolete nel risveglio di un moderno svago culturale che perseguiva la forma fisica, lo sviluppo del carattere e l’armonia sociale.

Riconoscere principi comuni
Esiste una comunanza condivisa tra tecniche e applicazioni difensive nella pletora di tradizioni difensive a mani vuote sviluppate in Asia. Come e perché è possibile che tecniche e applicazioni difensive siano virtualmente identiche nelle diverse regioni quando gli strumenti (kata) attraverso i quali sono state diffuse sono in realtà considerevolmente diversi?

Le forze antropologiche hanno influenzato profondamente l’evoluzione dei rituali e delle tradizioni umane. I diversi usi, linguaggi, costumi, climi, ideologie sociali e convinzioni spirituali hanno influenzato la crescita e la direzione delle pratiche ritualizzate quali, ad esempio, le tradizioni di autodifesa.

Cina, Giappone e Corea hanno influenzato profondamente Okinawa. Un’iscrizione su una campana costruita nel 1458 e destinata al castello di Shuri riporta quanto segue: “Il Regno delle Ryukyu è un luogo di grande bellezza nell’oceano meridionale. Qui sono raccolti i tesori di tre Paesi: Corea, Grande Ming e Giappone. Le loro navi fanno la spola tra diecimila Paesi e sono piene di cose meravigliose che devono essere viste ovunque.
La posizione unica di Okinawa, con la sua vicinanza geografica a Cina, Giappone e Corea, nonché al Sud Est Asiatico, unita alla tradizione nel commercio e alla storia nelle relazioni diplomatiche con queste nazioni, ha fornito al suo popolo, gli Uchinanchu, l’opportunità di intense interazioni culturali.
Non vi è dubbio che tali comunicazioni tra diverse culture abbiano rafforzato anche le tradizioni difensive “locali”. Tali interazioni spiegano inoltre il flusso costante di nuovi metodi che consentono di fare le stesse cose in molti modi diversi.

Tuttavia esistono alcune verità universali nelle applicazioni difensive, indipendentemente da stili o politiche autoreferenziali: un colpo è un colpo, un calcio è un calcio, un’articolazione si flette sempre nello stesso modo, senza aria si perde conoscenza e il dolore ci rende tutti uguali.

Attraverso la storia ed in ogni cultura sono sempre state la struttura umana e le sue funzioni a determinare quali tecniche di autodifesa a mani vuote siano più efficaci nell’impedire una prestazione fisica. Dopo tutto impedire ad un aggressore di attaccare è sempre stato lo scopo spassionato dell’autodifesa.

Con una buona conoscenza dell’anatomia umana è più facile comprendere come cause ed effetti generino risposte predeterminate. Tali risposte sono vitali nel processo difensivo. Servono ad esempio a creare vulnerabilità anatomiche che possano essere sfruttate fisicamente prima di determinare quali principi difensivi siano più appropriati. Le circostanze determinano sempre quali strumenti debbano essere utilizzati. Tuttavia, senza riconoscere le premesse originali sulle quali si è sviluppata l’arte di autodifesa, non è possibile comprendere completamente né apprezzare i corrispondenti principi applicativi.

Contrariamente alla credenza popolare, i metodi difensivi a mani vuote sviluppati all’interno dei confini spirituali dei santuari monastici della Cina non erano destinati all’uso contro combattenti professionisti o contro guerrieri nei campi di battaglia. Ciò non significa che non potessero essere utilizzati anche in tali ambiti ma che il loro scopo primario era quello di neutralizzare quegli atti di violenza fisica che affliggevano la società cinese dell’epoca ed erano ritenuti più efficaci contro coloro che avevano scarsa o nulla conoscenza di tali tattiche difensive.

Immaginate di essere afferrati da qualcuno. Nel momento esatto in cui venite afferrati, sputate in faccia all’aggressore (creando una distrazione momentanea) e colpite con il dorso della mano i suoi genitali (facendolo piegare in avanti). Colpite immediatamente l’arteria radiale sul polso, dalla parte del pollice, sapendo che ogni arteria ha un proprio fascio neuro vascolare che, quando stimolato con la corretta direzione, angolo ed intensità, induce dolore e produce una reazione predeterminata. La reazione predeterminata crea corrispondenti vulnerabilità anatomiche. Attaccando il bersaglio sopra menzionato, una delle vulnerabilità create consiste nel momentaneo indebolimento della presa dell’aggressore. Sapendo in anticipo ciò che avviene consente di creare un ponte afferrando il polso dell’avversario e attaccando il tricipite. Sapendo che il tricipite ha un complesso insieme di strutture neurologiche che includono recettori di allungamento e dolore, è possibile stimolare questa zona anatomica al fine di impedire all’aggressore la continuazione dell’attacco.
Tale conoscenza è vitale nello studio del karate-do.
È sufficiente osservare il contenuto del Bubishi per scoprire quale enorme enfasi i primi fondatori abbiano posto su questo tipo di studio.

Attraverso generazioni di osservazioni empiriche, i reclusi spirituali di Shaolin si resero conto che era possibile tenere sotto controllo l’ego umano ma che era davvero difficile controllare la violenza fisica. Per questo venne sviluppato un corpo di filosofia morale che governava il comportamento di coloro che padroneggiavano le applicazioni brutali di queste arti, allo scopo di rafforzare il loro impegno nel sostenere e promuovere i valori morali dell’allenamento.
La pratica era inoltre ulteriormente fortificata dalle pratiche introspettive che consentivano di scoprire e dominare la fonte delle debolezze umane.

Questo è ciò a cui si fa comunemente riferimento quando si parla degli aspetti fisici, mentali e spirituali del karate-do.

Perché gli esercizi a due persone?
Allo scopo di aiutare ad eliminare gli stereotipi culturali e stabilire una base comune sulla quale considerare le mie ipotesi, vorrei sostituire la parola “kata” (e altre etichette native, ove possibile) con il termine “paradigma difensivo”. Spero che questo possa aiutare il lettore a distogliere l’attenzione dagli eventuali pregiudizi che possono sorgere dall’uso della terminologia culturale per focalizzarla sullo scopo e sulle pratiche associate a tali paradigmi.

I paradigmi difensivi, diffusi pressoché in tutte le arti marziali asiatiche, sono rituali universali attraverso i quali è possibile affrontare in relativa sicurezza gli atti di violenza fisica. Il movimento di gambe e corpo, collegando i fondamentali strumenti di impatto con i corrispondenti metodi per trasferire energia cinetica, promuove la mobilità necessaria per gestire il confronto fisico ed accedere a zone di impegno critico. I temi difensivi presenti in tali paradigmi consistono in: torsione delle ossa, separazione dei tendini dalle ossa, blocchi articolari, proiezioni, strangolamenti e soffocamenti, contro-tecniche, atterramenti, lotta a terra e forme di impatto su zone anatomicamente vulnerabili nonché pressioni su zone del corpo non protette dalla struttura scheletrica.
In riferimento all’anatomia umana e alle sue funzionalità, i temi difensivi possono essere divisi in quattro categorie:

  1. tecniche di contenimento (vale a dire metodi finalizzati ad impedire il movimento per prevenire attacchi continuativi);
  2. tecniche che provocano l’arresto neurologico (attacchi al sistema nervoso per immobilizzare temporaneamente l’aggressore);
  3. tecniche di attacco al sistema respiratorio (allo scopo di far perdere i sensi all’aggressore bloccando il flusso di aria ai polmoni);
  4. tecniche ad impatto traumatico (al fine di paralizzare temporaneamente l’aggressore impedendogli la performance motoria).

Le tradizioni difensive orientali e del sud-est asiatico fanno uso abituale di una miriade di tecniche di allenamento a due persone allo scopo di sviluppare le abilità fondamentali sia sul piano fisico che cognitivo.
Tali esercizi vennero originariamente creati sulla base della riproduzione dei vari atti di violenza fisica che affliggevano la popolazione.

Nonostante le similitudini con altre pratiche orientali e del sud est asiatico, le tradizioni difensive buddiste e taoiste sono ampiamente riconosciute quali fonti originarie dalle quali vennero sviluppati tali esercizi.

Nel corso di una visita al monastero di Shaolin nel 1992 con Li Yiduan, vice segretario generale (ora ritiratosi) della Fuzhou Martial Arts Association, ho avuto l’occasione di parlare con Liang Yiquan un monaco pensionato allora in carico al Dipartimento di ricerca storica, che mi fornì spunti molto interessanti.

I monaci dell’ordine di Shaolin, il leggendario crogiolo nel quale miriadi di pratiche esoteriche venivano continuamente sintetizzate, avevano analizzato dettagliatamente gli atti di violenza fisica abituale nel corso delle generazioni. Essi avevano sviluppato non meno di 36 diverse risposte difensive, con almeno 72 varianti per un totale di 108 applicazioni che, trasmesse dalla tradizione originaria del Luóhàn quánfa (Boxe del pugno del monaco, rakkan-kenpo in giapponese), ricadevano in sette categorie, insegnate attraverso 18 paradigmi difensivi unici:

  1. difese contro tecniche abituali;
  2. difese contro attacchi lineari
  3. difese contro tecniche alternative di braccio;
  4. difese contro tecniche di calcio;
  5. reazioni contro l’essere afferrati;
  6. gestione di circostanze speciali;
  7. difese contro combinazioni.

I diciotto paradigmi difensivi ne includevano sei specializzati nel colpire con tecniche di pugno zone anatomicamente vulnerabili, due nell’uso dei palmi, uno specializzato nell’uso di gomiti, spalle, testa e ginocchia, quattro che facevano largo uso di tecniche di piede e gambe e cinque focalizzati sul corpo a corpo.

Da questo lascito si è evoluto un repertorio infinito di esercizi a due persone finalizzati alla connessione di strategie difensive ai relativi atti di violenza fisica abituale. Grazie a tali pratiche l’allievo poteva imparare a gestire situazioni pericolose in un ambiente controllato, in modo che ogni scenario potesse essere riprodotto e analizzato in tutte le sue possibili varianti e studiato in relativa sicurezza.

Gli esercizi a due persone vennero poi progressivamente migliorati nel corso delle diverse generazioni raggiungendo livelli di efficacia sempre maggiori. Essi fornirono inoltre le basi per lo sviluppo dei tegumi.

Non sorprende che i principi delle applicazioni difensive, essendo il prodotto di reclusi spirituali che ben conoscevano la tradizione esoterica millenaria, fossero rafforzati da un’approfondita conoscenza del corpo umano basata sulle teorie dello Yin e Yang e dei cinque elementi, proprie della Medicina Tradizionale Cinese. Direzione, angolo e intensità del trasferimento dell’energia cinetica aiutarono a forgiare le applicazioni difensive e a trasformarle in un’arte specifica.

Tegumi Renzoku-geiko
Nel Koryu Uchinadi i principi difensivi vengono trasmessi in maniera incrementale utilizzando esercizi chiamati tegumi, allo scopo di ricreare quegli atti di violenza fisica cui i kata si riferiscono. Le applicazioni fondamentali dei kihon waza (“tecniche di base”) vengono insegnate prima di studiare le varianti legate al “come entrare” e proseguire nel flusso dell’azione. Nel bunkai-jutsu ci si riferisce a queste applicazioni come omote o “superficie”, requisito necessario prima di poter studiare l’ura (“dietro”, nel senso di nascosto dalla superficie). Questo studio culmina nell’oyo (interpretazione pratica), processo che non può venire completamente compreso o apprezzato senza prima padroneggiare i suoi predecessori: omote e ura. Immaginate un allievo della scuola elementare mentre cerca di completare una ricerca da scuola superiore senza avere prima imparato i principi essenziali della grammatica necessari a scrivere il progetto. Semplicemente non sarebbe possibile.

Continuando con questa analogia sul linguaggio, se i kihon-waza (i mattoni da costruzione di questa tradizione) rappresentano le singole lettere dell’alfabeto, allora i kata descrivono le strutture grammaticali. Estendendo la metafora, il bunkai-jutsu esemplifica il significato delle frasi e dei paragrafi ed i tegumi (che di fatto collegano i fondamentali alle applicazioni) illustrano il processo vitale del cambiamento dei verbi nel linguaggio.

Non sparate al messaggero
Spesso siamo così concentrati sui nostri fini che raramente prestiamo attenzione alle cause che ci spingono a compiere determinate scelte. Quando gli scopi diventano più importanti degli sforzi, perdiamo di vista il processo, il momento. Il perseguimento è tanto importante, se non addirittura più importante, del raggiungimento. La risposta è nel viaggio, non solo nella meta!

Indipendentemente dalle etichette che lo contraddistinguono, dalle sue origini culturali o dalle firme di identità, il tegumi è pratica inseparabile che connette le tecniche fondamentali alle applicazioni difensive. Per quanto possa avere scarsa utilità nelle competizioni, la sua pratica è simbioticamente connessa ai principi applicativi dei kata.

Il karate può rappresentare diverse cose per diverse persone. A seconda degli scopi esso può essere visto come: 1. un’alternativa all’esercizio fisico convenzionale occidentale, 2. un’attività competitiva sfidante e regolamentata, 3. una forma geniale di autodifesa, 4. un’arte caratterizzata dalla cultura unica dalla quale si è sviluppata, 5. un hobby, 6. un’occupazione.

Solo rimuovendo il pantano delle mezze verità, i campi minati dal protezionismo e i labirinti di fraintendimenti che hanno oscurato la storia, i principi morali, ed i principi applicativi originari del karate, saremo in grado di risolvere la sua protratta ambiguità e determinare chiaramente il suo valore.

Tale conoscenza è vitale al processo di apprendimento, soprattutto se gli standard di insegnamento più armonici devono ancora essere fondati.

Conclusione
In questo articolo ho descritto il karate-do come una tradizione interrelata da temi difensivi comuni, trasmessi oralmente di generazione in generazione attraverso rituali ammantati da ferrea segretezza chiamati Kata. Ho introdotto la teoria e la pratica dei tegumi rendendo nota la mia personale ricerca in merito alla loro riscoperta e sistematizzazione. Ho inoltre parlato del valore di questa pratica dimenticata e ho enfatizzato il bisogno di reintegrarla come pratica comune per collegare il metodo all’applicazione.
Tuttavia lotte di potere, politica e secondi fini personali hanno spesso afflitto la storia del karate. Quel poco di testimonianza storica che rimane sembra essere ostacolata dal sospetto della sua autenticità ed accuratezza. Spesso, i cosiddetti leader hanno manipolato fatti storici allo scopo di servire i propri fini personali.

Che cos’è uno stile di karate se non l’interpretazione individuale dei principi difensivi universali appresi da una o più fonti, progressivamente assimilati e reinterpretati ed infine strutturati in un sistema didattico? Come ciascuna persona interiorizza la nuova conoscenza nel corso della vita rimane un prodotto dell’arte così come l’arte diventa un prodotto della loro vita.

Nel karate, gli stili vengono definiti ryu-ha e, per definizione, ciascun ryu-ha ha un soke (fondatore). Se conosciamo la storia del soke e delle fonti dalle quali ha appreso l’arte, il contesto culturale in cui è stata forgiata la sua interpretazione e gli scopi dei suoi sforzi, allora è possibile comprendere i metodi di allenamento della sua scuola.

Nello stesso modo in cui un matematico estrapola i dati, un ricercatore lavora a ritroso secondo uno schema logico per comprendere l’evoluzione del karate-do moderno e delle relative applicazioni pratiche che ne supportano gli scopi.

In aggiunta a come le forze antropologiche hanno influenzato lo sviluppo della pratica del karate, non dobbiamo ignorare l’effetto esercitato dall’ego, dagli interessi politici e dall’intolleranza sulla crescita e sulla direzione di ogni ryu-ha e sui programmi di studio sui quali si basano i relativi insegnamenti.

Potete anche solo immaginare cosa potrebbe essere un ryu-ha se il suo soke non avesse compreso completamente la storia, la filosofia o i principi difensivi della sua arte?

Patrick McCarthy


Copyright © Patrick McCarthy
Traduzione di Marco Forti
Questa traduzione è stata espressamente autorizzata dall’autore
(la riproduzione di questo testo è consentita solo con il consenso scritto dell’autore)

 

 

 

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